In foto di copertina lo Skyline di DUBAI con il Burj Khalifa (il grattacielo più alto del mondo)
Sono finalmente riuscito a mettere le mani sul testo finale scaturito dai lavori della COP 28 (ventottesima “Conference of Parties” sul Clima dell’ONU), documento come ricorderete tutti, salutato da un grande applauso liberatorio.
Ma aldilà del sollievo puramente di facciata per aver ottenuto finalmente una data per la transizione energetica (priva comunque di qualunque scadenzario, cronoprogramma, e obiettivi intermedi), rimane il nulla di fatto su tempi e modi di questa transizione. In questa COP a trazione petrolifera c’era, (è vero) il rischio che il cambiamento climatico venisse negato o che ne venisse smentita la responsabilità fossile, ma sarebbe stato un terribile autogol (alcuni userebbero un termine più pesante…) per una Conferenza globale mirante a combattere il cambiamento climatico. Quindi hanno salvato la faccia, con conclusioni che riconoscono il cambiamento climatico come problema globale ma che sono in ritardo ormai di trent’anni, mentre rimangono completamente intoccati gli interessi del mondo petrolifero (come vedremo più avanti).
L’applauso liberatorio aveva una ragione ben precisa: si riferiva alla presenza di numerose “stranezze” che potevano bloccare o sabotare le politiche climatiche mondiali affidate alla COP che alla fine hanno ottenuto comunque il risultato, di rallentare molto il processo di transizione energetica, proprio quando invece bisognava premere sull’acceleratore. In pratica si tratta di un vero e proprio dirottamento da parte delle petromonarchie delle politiche climatiche globali.
Ma vediamo più in dettaglio:
Stranezza n.1
La prima stranezza è dovuta al luogo dove si è tenuta la conferenza – Dubai – vale a dire una città degli Emirati Arabi Uniti che deve tutto all’impetuoso sviluppo economico generato dalla scoperta negli anni ‘60 di giacimenti di petrolio tanto da avere un aumento di popolazione vertiginoso, dai 200.000 abitanti nel 1980 agli attuali 3.500.000).
Dubai passata grazie al petrolio da piccolo insediamento nel deserto a capitale mondiale delle Archistar con di grattaceli di dimensioni enormi e dalle forme più inusitate (compreso il più alto del mondo, il Burj Khalifa, di 830 m.),
Dubai, con edifici e impianti (come lo Sky Dubai) dove grazie a sistemi di climatizzazione forzata è possibile, sciare in piena estate mentre la temperatura esterna arriva a 45-50 gradi.
Dubai, una città divoratrice di energia guarda caso cresciuta grazie ai combustibili fossili che sono la causa primaria delle emissioni di CO2 e e quindi responsabili di quel cambiamento climatico e di quella degenerazione ambientale, che, per ragioni ancora tutte da comprendere, (o forse comprensibilissime…) viene scelta come sede di una conferenza cruciale per combattere i cambiamenti climatici e la degenerazione mbientale…
Dubai il luogo peggiore al mondo per discutere di contrasto ai cambiamenti climatici.
Stranezza n.2
A Dubai Presidenza della COP 28 viene affidata a “Sultan bin Ahmed Al Jaber”, che è contemporaneamente Ministro dell’Industria degli Emirati Arabi Uniti, inviato speciale degli Emirati per i cambiamenti climatici e Amministratore Delegato della ADNOC-Abu Dhabi National Oil Company, una delle più grandi compagnie produttrici di energie fossili al mondo, per la quale ha programmato un aumento della produzione di petrolio da 3 milioni di barili/giorno nel 2016 a 5 milioni nel 2030.
E tanto per non smentirsi, e anzi per mettere le cose in chiaro, il Presidente della COP di Dubai, comincia i lavori della conferenza affermando che non vi è “nessuna prova scientifica della necessità di rinunciare ai combustibili fossili” e che “senza il petrolio l’umanità tornerebbe nelle caverne”.
Che la Presidenza della COP 28 sia stata affidata a una persona con un simile profilo, campione dell’OPEC – “Organization of the Petroleum Exporting Countries” vale a dire l’organizzazione dei Paesi maggiori esportatori di petrolio di cui gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita sono i maggiori esponenti, (con il fiancheggiamento della Russia la cui economia si regge esclusivamente sulla vendita di gas, ora in crisi a causa dell’invasione dell’Ucraina) , equivale a nominare un ateo alla presidenza della Conferenza Episcopale Italiana.
Stranezza n.3
Alla COP 28, oltre ai rappresentanti dei 198 Paesi aderenti, sono stati invitati a partecipare 2.456 lobbisti delle fonti fossili, quasi il quadruplo dei 638 presenti l’anno precedente alla COP 27 a Sharm-el-Sheik (una presenza inspiegabile già da allora). Vale a dire che era presente un folto e agguerrito gruppo di persone interessate ad orientare le conclusioni della conferenza in direzione favorevole al mantenimento dell’uso di petrolio, gas e carbone. Una lobby sostenuta dall’Arabia Saudita, che all’inizio dei lavori ha dichiarato che l’abbandono dei combustibili fossili “non era assolutamente in discussione”.
L’applauso liberatorio ma non troppo…
Di fronte a questo scenario da incubo la gran parte dei partecipanti deve aver pensato che la COP 28 sarebbe stata una delle peggiori tra le tante e inutili che si erano succedute dopo le uniche significative – Kyoto 1997 e Parigi 2015 – fino a quella incommentabile dello scorso anno a Sharm-el-Sheik. Sicché hanno accolto con un sospiro di sollievo il “Global stocktake” (bilancio globale), e anche se il comunicato finale è stato dato per approvato in tre minuti da Al Jaber senza aprire una discussione nel merito, e hanno tirato un sospiro di sollievo solo perché esso menzionava la transizione e quindi hanno reagito con un applauso liberatorio.
Hanno partecipato all’applauso, con qualche ragione, i Paesi più arretrati, quelli che dall’eliminazione dei combustibili fossili subirebbero una battuta d’arresto nel loro sviluppo. Un problema da affrontare in altra sede (o forse anche in questa), perché questi Paesi non possono essere abbandonati a se stessi ma al tempo stesso non possono essere lasciati liberi di inquinare a piacimento, e la soluzione non la fornisce certamente la miseria di dotazione finanziaria prevista per il fondo “Loss & damage” presso la Banca mondiale per aiutare i Paesi più poveri e vulnerabili, in genere i più colpiti da eventi meteorologici sempre più estremi.
Ha applaudito convintamente la Russia, che sostiene il cartello dei petrolieri, e hanno applaudito la Cina e gli Stati Uniti che, per ragioni diverse, non vedono di buon occhio un’accelerazione nella fuoriuscita dalle energie fossili.
Hanno anche applaudito – ma davvero senza motivo – i Paesi europei, che hanno perso l’ennesima occasione per giocare un ruolo trainante nell’applicazione degli accordi di Parigi 2015.
Ovviamente non hanno applaudito i 44 Paesi insulari facenti parte dell’AOSIS, sui quali ricadono già oggi le maggiori conseguenze dei cambiamenti climatici, il cui Presidente – Cedric Shuster di Samoa – vedendo la piega che prendevano i lavori aveva detto “Non firmeremo il nostro certificato di morte. Non possiamo firmare un testo che non preveda impegni forti per abbandonare i combustibili fossili”.
Un accordo storico?
Dunque, al di là dell’applauso liberatorio e delle diverse reazioni a caldo, che valutazione possiamo dare della conclusione della COP 28?
Anzitutto va detto che dal punto di vista formale si è trattato di una netta regressione dall’aspettativa iniziale di abbandono dei combustibili fossili (phase-out), verso una più contenuta riduzione proposta nel corso dei lavori (phase –down), fino alla formulazione finale di un percorso di transizione (transitioning-away) che significa tutto e niente e rimane priva di qualunque. Non si tratta di una questione puramente terminologica, perchè qui le parole sono importanti, e se non c’è il Phase out (=fuoriuscita) ma il Transitioning away ( = graduale abbandono”) dei fossili, una ragione ci deve pur essere. E se ad applaudire per primi sono i Paesi petroliferi, facciamoci una domanda e diamoci una risposta…
Infatti nella bozza del cosiddetto Global stocktake viene solo riconosciuta la necessità “di una riduzione profonda, rapida sia del consumo che della produzione di combustibili fossili in modo giusto, ordinato ed equo, in modo da raggiungere lo zero netto entro, prima o intorno al 2050, come raccomandato dalla scienza“…
Capite? “entro, prima o intorno” al 2050… Non è esattamente un impegno vincolante e irrevocabile…
Infatti va detto che dal punto di vista sostanziale non è stato imposto alcun obiettivo realizzabile e misurabile né sul piano quantitativo né su quello temporale – per il perseguimento di questo percorso di transizione, lasciando ciascun Paese libero di comportarsi di comportarsi come meglio crede.
L’art. 28 – il cuore del comunicato finale – afferma che la Conferenza:
- “Riconosce la necessità di riduzioni profonde, rapide e durature delle emissioni di gas serra in linea con il percorso dell’1,5 gradi”: (una ovvietà da Parigi 2015 in poi).
- “Invita le parti a contribuire agli sforzi globali secondo modalità determinate a livello nazionale”: (assolutamente vago ed evanescente!)
- “Tenendo conto dell’accordo di Parigi”: (ma dai! sono passati otto anni e siamo ancora all’accordo di Parigi mentre nel frattempo il fabbisogno energetico mondiale è coperto per l’86% da combustibili fossili).
Sempre l’art. 28 dice che occorre:
- “Triplicare la capacità di energia rinnovabile a livello globale e raddoppiare la media globale del tasso annuo di efficienza energetica entro il 2030”.
- “Accelerare gli sforzi verso la riduzione graduale dell’energia prodotta dal carbone “unabated”, ovvero senza tecnologia di cattura e stoccaggio” (una tecnologia costosissima e ancora inesistente) .
Anche queste due indicazioni non sono nulla di più che semplici auspici perché nulla si dice su come questi obiettivi debbano essere perseguiti, misurati e quando debbano essere raggiunti.
Dunque cosa c’è di “storico” (definizione di Al Jaber) in questo accordo ? Cosa giustifica il trionfalismo della von der Leyen che ha detto “L’accordo di oggi segna l’inizio dell’era post-fossile”? in realtà nulla di quanto è stato sottoscritto autorizza a rispondere positivamente e, meno che meno, a considerare credibile la prospettiva di “transitare fuori dai combustibili fossili” entro il 2050.
La verità è che tutto questo trionfalismo da parte dell’organizzazione COP più petrolifera di sempre si giustifica con lo scampato pericolo di queste conclusioni: innanzitutto lo scampato pericolo di aver ottenuto un documento finale che non menziona minimamente i mille miliardi annui di sussidi alle fonti fossili che quindi continueranno tranquillamente (al riguardo ecco la nota della IEA https://www.iea.org/topics/energy-subsidies ), sussidi che, sia detto per inciso, ammontano a oltre 35v miliardi l’anno nel nostro Belpaese… (https://www.legambiente.it/rapporti-e-osservatori/stop-sussidi-alle-fonti-fossili/?fbclid=IwAR0CmlRwlndY42-qt8OSbfsG-ns9Qoty78tTnTbdDay42MLVUfEfTtvwaBs ), miliardi e miliardi sottratti alle fonti rinnovabili, l’efficienza energetica e l’innovazione ambientale!
Inoltre non è stato approvato alcun impegno vincolante a reinvestire i profitti del fossile in tecnologie rinnovabili per accelerare la transizione, tecnologie fra le quali viene menzionato a sproposito anche il nucleare, che dunque “riciccia” come i peperoni mal digeriti, e viene accreditato di essere una tecnologia energetica a emissioni zero come le rinnovabili (certo che per equiparare il nucleare alle rinnovabili… ci vuole davvero coraggio. E questi arabi dimostrano di averlo…)
Adesso non ci resta che aspettare la COP 29, e vedere cosa si inventeranno per ritardare ulteriormente la transizione.
A proposito sapete dove si terrà la COP 29?
In un Paese Europeo? No perché la Russia ha posto il veto.
In un Paese tipo Samoa minacciato dal cambiamento climatico? Suvvia non scherziamo!
Per rimanere in continuità con il dirottamento fossile delle politiche climatiche, la COP 29 si terrà in Azerbaigian, un altro grande produttore ed esportatore di petrolio e gas naturale, noto ai più per aver dato vita al contestatissimo gasdotto TAP.
Insomma, un bel successo da tutti i punti di vista per il cartello dei petrolieri guidato dal Presidente-Ministro-Amministratore delegato Sultan bin Ahmed Al Jaber.
See you in Baku next year!