L’autore americano, attraverso il suo ultimo libro Pianeta Acqua, disegna passato, presente e futuro dell’umanità nell’ottica dell’idrosfera. E parla di metaverso, filosofia, Gen-z e transizione ecologica in questo colloquio esclusivo con Wired
- Fonte www.wired.it/article/jeremy-rifkin-intervista-pianeta-acqua/ 12 ottobre 2024
Viviamo su un pianeta chiamato Terra, che è composto per due terzi d’acqua: per l’economista Jeremy Rifkin, già solo questa incomprensione sulla nostra identità rivela un grande caos sulla nostra direzione come specie dominante. Per citare il rapper Salmo, “dove cazzo vai se non sai dove vieni” (1984). Per questo, ribattezzare il pianeta con un nuovo nome può essere un primo passo per raccontare una storia diversa dell’umanità? Insomma, può aiutare a salvarci da una corsa chiamata progresso che ci sta portando all’autodistruzione?
Da questa proposta forte e chiara inizia l’ultimo libro di Jeremy Rifkin, intitolato appunto Pianeta Acqua. Wired lo ha intervistato all’interno del Wired Next Fest 2024 di Rovereto. Partiamo da un parallelo azzardato con il linguaggio del marketing: l’autore americano propone un rebranding del Pianeta? Alla fine, il target principale di chi ha il potere di cambiare le carte in tavola nella sfida del cambiamento climatico sono dirigenti e Ceo aziendali, e i business men conoscono l’importanza di ridisegnare l’identità del marchio di un’azienda quando si definisce una nuova mission. “Ben detto”, risponde lui, “spiega parte della filosofia che ho cercato di portare con questo libro: presentare una narrazione diversa che sia uno schema di comprensione di ciò che siamo”.
Per quasi due ore, Rifkin parla in collegamento dal suo ufficio di Washington, dopo essere intervenuto anche all’interno del festival in Trentino da remoto, di diverse sfumature che riguardano le nuove sfide dell’umanità. Citando tecnici, scienziati, filosofi, poeti. E offrendo visioni alternative. Schopenhauer? Non certo un pessimista. Platone? Ha messo l’umanità sulla strada sbagliata. L’AI? Non manterrà ciò che promette (ha bisogno di troppa acqua). E i petrolieri? Sanno che la (loro) festa è finita. Pianeta Acqua, da cui parte questa conversazione sul futuro dell’umanità, è il suo libro numero 24 (gli altri sono stati tradotti complessivamente in 35 lingue) in oltre mezzo secolo di attività. Oltre alle diverse attività autoriali e accademiche, oggi Rifkin è uno dei principali architetti dei piani economici dell’Unione europea e della Cina per la transizione green e ha svolto il ruolo di consigliere del leader della maggioranza democratica al Senato degli Stati Uniti. Ecco cosa ha raccontato in esclusiva a Wired Italia.
I temi:
- Un nuovo paradigma, a partire dall’acqua
- La storia umana nell’ottica dell’idrosfera
- La rivincita degli umanisti sui tecnologi
- Il ruolo della Gen-Z nel futuro dell’uomo
- Il ruolo dell’arte che deve diventare effimera
- L’insostenibile freddezza del metaverso
- La fine dell’era delle energie fossili
- Salvarci con il sublime: la paura che crea meraviglia
Jeremy Rifkin: “Viviamo su un pianeta d’acqua, dobbiamo ripensare il nostro modello di governance sociale e ambientale”
Un nuovo paradigma, a partire dall’acqua
“Questo libro si è scritto da solo: dopo cinquant’anni di attività, ho cominciato a realizzare che in Occidente abbiamo sbagliato tutto”. Rifkin comincia così ad introdurre il motivo per cui ha scritto Pianeta Acqua. Parte dal libro della Genesi nella Bibbia, citando l’incipit: in principio c’era il ‘profondo’, ovvero le acque. Solo dopo apparse Dio che separò la luce dal buio e l’acqua dalla terra. Le acque, insomma, preesistevano perfino a Dio. Come l’autore americano scrive nel suo libro, questa preesistenza compare anche nel racconto della creazione della civiltà babilonese e in altre versioni religiose della creazione in tutto il mondo.
“Un punto importantissimo – racconta -. Ci dà la dimensione dell’importanza dell’acqua per la vita. Solo che nelle religioni occidentali, come racconta la storia di Adamo ed Eva, Dio affida il ‘creato’ all’uomo, come fosse il suo custode ma anche la sua guida. Nelle religioni orientali, l’Uomo è invece parte della Natura, non sovraordinato a lei”. Un tema che ricorre spesso nel dialogo con Rifkin e nella sua ultima opera: il riferimento continuo all’animismo, in contrapposizione alle religioni rivelate: un invito a recuperare quel senso di unità tra diverse entità naturali, di cui l’umanità è solo una componente. Una narrazione diversa, una delle chiavi per salvarci dalla nostra attuale concezione suicida di futuro e scegliere un progresso resiliente. E questo storytelling riparte dall’importanza dell’acqua.
Sarà lo storytelling a salvare il pianeta?
Dati e statistiche non sono riusciti a suscitare la reazione globale necessaria a fronteggiare la crisi climatica: forse è il momento di provare con le storie
Rifkin ricorda nel libro che il 24 agosto 2021 l’Agenzia spaziale europea introdusse l’espressione “Planet Aqua”. La Nasa si dichiarò d’accordo, affermando sul proprio sito web che, guardando la nostra Terra dallo spazio, è evidente che viviamo su un pianeta d’acqua. “Il paradosso – riprende nell’intervista – è che oggi la nostra Nazione, gli Usa, è letteralmente sott’acqua: è una crisi di visione riflessa in problemi enormi e concreti. E’ necessario vedere la Natura come una life source and not a resource (come fonte di vita e non come una risorsa, ndr). Pensiamo ai riflessi sociali di questa crisi, ad esempio sul fatto che la Gen-Z si chiede se valga la pena riprodursi o meno. Noi sappiamo che stiamo andando nella direzione sbagliata: il problema è che stiamo cercando di affrontare la cosa con gli stessi strumenti che hanno creato il problema. Penso all’industrializzazione, al capitalismo in particolare. Per questo, riprendendo il tema del rebranding, abbiamo bisogno di un nuovo playbook”.
Nel linguaggio del business, il playbook è un manuale che descrive le politiche, i flussi di lavoro e le procedure di un’azienda. Qui il riferimento è al futuro della nostra specie sul Pianeta. “Quello che abbiamo fatto in Europa [nel suo lavoro di consulenza alla Commissione, ndr] è partito da questo: dato che il playbook non funziona, non abbiamo un playbook. Dobbiamo cominciare da zero”. E l’autore si riferisce alla governance che usiamo, al sistema economico in cui viviamo, all’approccio a scienza e tecnologia, al modo in cui educhiamo le giovani generazioni. E perfino a come concepiamo ed orientiamo tempo e spazio. Le attuali grandi infrastrutture umane, sia fisiche che organizzative, bloccano lo sviluppo umano in senso assoluto: “La cosa più imbarazzante che ho scoperto è che se prendi un libro di biologia della scuola superiore tutto questo appare chiarissimo”.
La storia umana nell’ottica dell’idrosfera
“I ragazzi a scuola non imparano la storia corretta: sono seimila anni che esiste una cultura diversa dello sviluppo umano, basata sull’acqua”. L’idrosfera è l’insieme delle acque presenti sul pianeta nei vari stati di aggregazione: dal sottosuolo alla superficie sino all’atmosfera. Secondo Rifkin, per seimila anni abbiamo canalizzato, privatizzato, sfruttato e avvelenato l’idrosfera: oggi questa si sta ribellando e minaccia di provocare la sesta estinzione di massa sulla Terra. “Come disse di me una mia insegnante a mia madre: ‘Non è il più intelligente, ma si applica: ci prova’. Ecco, per 40 anni ho provato a mettere in contatto punti diversi per dargli una lettura. È il mio proposito con questo libro: offrire uno scenario completo, una visione composta”.
In Pianeta Acqua, l’autore ripercorre i principali snodi della storia umana nell’ottica del rapporto umano con le risorse idriche. A partire dalla prima società idraulica urbana, che fu fondata dai Sumeri lungo i fiumi Tigri ed Eufrate, in Mesopotamia: dove si riconosce universalmente sia nata la civiltà umana moderna. La necessità di addomesticare i grandi flussi idrici ha richiesto sviluppo di competenze: ci fu bisogno di migliaia di braccianti per costruire canali e dighe, artigiani per allestire edifici e produzione, architetti, ingegneri e contabili per progettare e dirigere. E infine fu inventata la prima forma di scrittura, il cuneiforme, per amministrare il tutto.
Nella stessa ottica, l’autore ci spiega come i cereali abbiano svolto un ruolo cruciale nella formazione dello Stato agricolo, la prima forma complessa di organizzazione politica: “Semplicemente perché i cereali potevano essere conservati, quindi immagazzinati e trasportati rispetto ai tuberi e le radici: peccato che però siano estremamente idrovori, richiedono moltissima acqua”. Questo ed altri aspetti affrontati da Rifkin ridisegnano il rapporto dell’uomo con l’acqua come fondamento del nostro sviluppo: “Pensavo fosse necessario in questo libro condividere questa versione della Storia, per capire cosa abbiamo fatto di sbagliato e cosa dobbiamo fare invece adesso”.
La rivincita degli umanisti sui tecnologi
Nel libro di Jeremy Rifkin emergono numerosi riferimenti a filosofi e poeti, oltre alle più canoniche citazioni a scienziati e innovatori come nelle sue opere precedenti. Alcuni ricordano gli appelli dello scrittore Amitav Gosh, sull’importanza della letteratura e della filosofia per comunicare il cambiamento climatico: il cambio di narrazione, per rendere più sensibile il problema dei cambiamenti che affronteremo e l’urgenza delle soluzioni da intraprendere. Non solo presentare informazioni, ma raccontare storie diverse per trasmettere messaggi più profondi.
Alla domanda se in qualche modo Rifkin intende spingere la rivincita della sfera umanistica su quella tecnica, dopo che quest’ultima ha plasmato il secolo scorso (con risultati brillanti e terrificanti), l’autore risponde con un sorriso: “Ti racconto un episodio: nel 2018 abbiamo realizzato un documentario sul mio libro The Third industrial Revolution. All’inizio c’era questa lunga frase di Walter Benjamin: ‘Il valore dell’informazione non sopravvive al momento in cui è nuova. Vive solo in quel momento; deve abbandonarsi completamente ad esso e spiegarsi senza perdere tempo. Una storia è diversa. Non si consuma. Conserva e concentra la sua forza ed è in grado di liberarla anche dopo molto tempo.’ Il target del doc erano giovani e non c’era musica, non c’era grafica, durava 1 minuto: così aveva deciso il produttore. Abbiamo pensato: ehi, dopo al massimo 30 secondi ci abbandoneranno. E invece il documentario è stato visto da 8 milioni di persone, di cui la stragrande maggioranza giovani. Sorprende per capire cosa può essere proposto alle nuove generazioni”. Al di fuori della dimensione di un video da 30 secondi su Tik Tok.
Da qui parte il suo ragionamento che critica la direzione data dalla filosofia di Platone alla storia umana. Platone introdusse nella filosofia occidentale il concetto di scissione mente-corpo: si può fare esperienza soltanto mediante il pensiero puro e il ragionamento deduttivo, e non mediante l’esperienza sensoriale. Questo pensiero, secondo Rifkin, ha finito per condizionare il modo in cui generazioni di studiosi e scienziati hanno condotto le loro ricerche. “Abbiamo sentito tutti innumerevoli volte la battuta ‘cerca di non essere così emotivo… Sii più razionale. Fidati della ragione più che dell’esperienza’. Anche Bacone innestò nell’Illuminismo un’idea della Natura come passiva, come oggetto di scienza da cui estrarre segreti. E questo approccio utilitaristico con tutto ciò che ci circonda è quello che ancora oggi guida i nostri avanzamenti scientifici”. Poi arrivò John Locke, che secondo l’autore di Pianeta Acqua ha dato le basi filosofiche al concetto di proprietà privata e nel caso specifico la possibilità di possedere proporzioni di idrosfera. “La sua tesi sulla Natura e il ruolo della proprietà privata fornì la base intellettuale per lo sviluppo del capitalismo”. Da qui, la sottrazione del suolo per uso privato, che è parte attiva del processo di fotosintesi: alla lunga tutto ciò ha creato problemi come la frammentazione della Natura (uno dei rischi più grandi ad esempio per la biodiversità in Europa). E alla concezione estrema dell’utilitarismo naturale.
“Ogni essere vivente, ogni elemento naturale, interagisce con tutto il resto: deprivare in modo sconsiderato le acque ad esempio dal sottosuolo, lo rende vuoto. E questo sta portando al collasso delle città. Anche Chicago, solo per fare un esempio tra gli altri, sta collassando”
Jeremy Rifkin
Ecco perché abbiamo bisogno di una storia nuova, che racconti come l’acqua crei tutto: “La scienza lo sa, ma non lo spiega o forse non lo realizza in modo pieno per raccontarlo al meglio: per questo dobbiamo recuperare filosofi e umanisti per riconfigurarla anche a livello narrativo”. Jeremy Rifkin
Ecco perché abbiamo bisogno di una storia nuova, che racconti come l’acqua crei tutto: “La scienza lo sa, ma non lo spiega o forse non lo realizza in modo pieno per raccontarlo al meglio: per questo dobbiamo recuperare filosofi e umanisti per riconfigurarla anche a livello narrativo”.
Il ruolo della Gen-Z nel futuro dell’uomo
“Credo che i ragazzi della Gen-Z siano molto consapevoli. Loro protestano da sempre e in questo caso non ancora secondo un contesto narrativo: ma solo per istinto”. C’è qualcosa di nuovo in questo istinto che Rifkin riconosce e che ha realizzato proprio in Italia. “A Milano ho capito per la prima volta, parlando con tre ragazzi della Gen-Z, come la nuova generazione abbia un istinto consapevole: si sono qualificati come ‘specie in pericolo’ e come le altre creature siano parte di loro. Semplice così: possiedono la biofilia, l’empatia con gli altri esseri viventi”. E a questo punto lancia una prospettiva per la grande sfida climatica che attende le nuove generazioni. La Smithsonian Institution, come racconta anche nel suo libro, ha condotto un studio per capire come la nostra minuscola specie si sia sviluppata durante il breve periodo di tempo trascorso sulla Terra. “Per me – spiega – si tratta forse della massima nota di speranza dei nostri tempi”. I ricercatori hanno considerato gli ultimi 800.000 anni della documentazione geologica, per scoprire che questo periodo fu caratterizzato scandito dall’inclinazione dell’asse terrestre e da improvvisi mutamenti estremi della temperatura e del clima sulla Terra, tra glaciazioni e surriscaldamento improvviso. Questi drastici cambiamenti si sono ripetuti più e più volte per 800.000 anni. E lo studio conclude che ce l’abbiamo fatta perché la nostra è tra le specie più adattive del pianeta, anche se fisicamente molto meno dotata di altre.
“Possiamo imparare da ciò che abbiamo vissuto: abbiamo un cervello eccezionalmente grande, i pollici opponibili per la tecnica, abbiamo il cuore per l’empatia con altri umani e altri esseri viventi. Questo è quello che le giovani generazioni devono tenere a mente come segno di speranza per la sfida dei cambiamenti climatici nel prossimo futuro” Jeremy Rifkin
Il ruolo dell’arte che deve diventare effimera
Nel libro, l’autore mette in discussione molti dogmi: uno tra questi è il ruolo contemporaneo dell’arte. Contro una visione commerciale e utilitaristica dell’opera artistica, dove un oggetto è fatto per durare e più dura più acquisisce valore, Rifkin suggerisce di fare attenzione alla crescita di quella che chiama arte effimera. “Questa è immediata, destinata a dissolversi e non a essere conservata. E’ una forma di arte che celebra la dimensione temporale dell’esistenza”. Solo per fare qualche esempio, si tratta della stand-up comedy, delle jazz session e delle battle di freestyle rap, delle installazioni temporanee nelle mostre e dei flash-mob. “Negli anni Novanta le generazioni hanno cominciato ad avvicinarsi ad un’arte effimera, legata agli elementi naturali come ad esempio la sabbia. Attraverso questo tipo di arte effimera puoi sentirti parte di qualcosa di più grande. Il problema delle nuove generazioni è che possono protestare, ma poi se stanno più di sette ore davanti ad uno schermo, come succede normalmente, la salute mentale si deteriora e i cervelli smettono di svilupparsi. In futuro avremo molto tempo in cui dovremo stare chiusi in casa, ma altro in cui bisognerà stare fuori per imparare e anche performare nella realtà vivente. Quindi l’avvento delle arti effimere sarà tanto importante quanto quelle che hanno dato vita al Rinascimento”.
L’insostenibile freddezza del metaverso
Rifkin sostiene l’importanza dell’avvento dell’intelligenza artificiale, ma non condivide l’entusiasmo sul metaverso: il problema è che genera al momento un distacco dalle capacità umane legate all’empatia. Una qualità che deve essere allenata nella vita reale, e non si può trasmettere tramite un device digitale. E dubita che l’AI si svilupperà tanto come si crede: “Ci sarà un ruolo per l’AI, ma adesso chi la sviluppa sta solo puntando a guadagnare triliardi di dollari: ma non si svilupperà come pensano. La motivazione è questa: non c’è abbastanza acqua. E’ vero che l’AI funziona con elettricità, ma per realizzarla serve tanta acqua”. Infatti secondo l’autore gli studi dimostrano come sole ed eolico possano già sostituire le energie fossili nell’approvvigionamento elettrico generale e che quindi questo potrebbe supportare la diffusione dell’AI, “ma il problema è che stiamo raccogliendo troppi dati: stiamo installando sensori dappertutto. Quindi, ad esempio, se tu hai un veicolo autonomo che manda ad un cervello generale i dati, c’è un tempo di latenza che creerà problemi. E poi sai quanta acqua ci vuole per produrre un chip? 8 tonnellate di acqua dolce per ognuno. L’anno scorso sono stati prodotti 1 miliardo e 300 milioni di chip. Wow! E si stanno spendendo triliardi di dollari per questo tipo di tecnologia”, mentre l’umanità ha sempre più sete d’acqua. “Quindi abbiamo bisogno di acqua e di AI, ma quest’ultima non per usi secondari. Dobbiamo usarla per motivi primari: dalle infrastrutture alla mobilità. Ad esempio, nella distribuzione di energia nei governi bioregionali che ipotizzo nel libro. Ma chi si occupa di AI al momento conosce o si preoccupa di ciò di cui stiamo parlando adesso? Non credo”.
Finora sono le società di consulenza le vere vincitrici della corsa all’intelligenza artificiale
Perché l’impatto sul business delle aziende è molto meno di quanto ci si aspetta, e in taluni casi con risultati deludenti. Ma c’è chi è già passato all’incasso
La fine dell’era delle energie fossili
Pochi hanno una visione più aggiornata di Rifkin sulla sfida della transizione ecologica, dato il suo ruolo di consulente su alcuni di questi aspetti per il governo americano, cinese e per la Commissione europea. Recentemente, fondi d’investimento della portata di Blackrock o Vangard hanno mostrato più timidezza nel supporto agli investimenti in sostenibilità. La Shell dichiara di voler estrarre petrolio fino al 2050. Se dobbiamo realizzare la transizione energetica per salvarci, le premesse di un cambiamento sembrano oscurarsi. “E’ un’impressione momentanea: in realtà le aziende petrolifere non stanno più investendo tanto nelle esplorazioni. Quello su cui si concentrano adesso è aumentare il prezzo del petrolio e delle risorse fossili che sono già a disposizione. Ma non so davvero cosa i loro dirigenti dicano ai propri figli quando tornano a casa la sera. Se sei un Ceo di un’azienda petrolifera sai bene che hai 5-10 anni al massimo per massimizzare i profitti e mostrarli ai tuoi azionisti. E sai bene che solare ed eolico sono molto più economici del nucleare, molto più economici del petrolio, assolutamente più economici del carbone. Non gli importa davvero del mercato: il costo marginale delle rinnovabili corre verso la prossimità allo zero, in futuro non c’è gara ad esempio con l’impiego dell’uranio o l’estrazione di risorse fossili”.
Salvarci con il sublime: la paura che crea meraviglia
All’inizio e alla fine del libro di Rifkin c’è il grande scontro al centro della concezione del sublime, il concetto elaborato dal filosofo irlandese Edmund Burke. Scrive l’autore americano a proposito di questo concetto che ci sono due impostazioni diverse e contrapposte nate da due grandi filosofi. Immanuel Kant ci spingerebbe a esercitare il nostro impulso razionale e a costringere le acque ad adattarsi ai capricci della nostra specie, “mentre Arthur Schopenhauer ci spingerebbe a immedesimarci nella natura vivificante dell’esistenza e a trovare il modo di adattarci a un ciclo idrologico in rapida evoluzione. L’umanità dovrà scegliere tra questi due modi molto diversi di guardare al futuro del pianeta blu. Le decisioni che prenderemo su quale opzione scegliere influenzeranno non solo il nostro destino, ma il futuro della vita stessa sulla Terra”. Appare chiaro che l’autore scelga chiaramente una visione per il futuro alla Schopenhauer, che nel linguaggio comune è un pessimista. Qualcosa di simile al nostro poeta Giacomo Leopardi e alla sua poesia La ginestra, dove riflette sulla bellezza e sull’effimero di un fiore come la ginestra comune che cresce vicino ad un vulcano. Eppure lo stesso Leopardi in quello sforzo eroico della ginestra trova il senso dell’esistenza umana e la meraviglia per l’amore per la vita, anche oltre la razionalità.
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La nostra ultima domanda è quindi se la soluzione per non estinguerci sia recuperare la paura oltre che il rispetto per la Natura che ci circonda. “Tanti anni fa ho scritto La civiltà dell’empatia, un libro di quasi 650 pagine, ci ho messo 10 anni. Mia moglie mi disse: ‘Tu sei pazzo, non lo leggerà nessuno’”. Rifkin, con la sua consueta placida ironia, ci dice che nessuno della sua famiglia più stretta ha mai letto una pagina di un suo libro: o almeno di quello in particolare. “In quel libro ho parlato del concetto di sublime secondo Bulke. Dove lui parla di osservare queste manifestazioni naturali estreme, da un tornado a un’inondazione, che ci sovrastano come individui. Ma lo stesso può avvenire anche alla vista di un arcobaleno.
Il punto è che queste manifestazioni suscitano in te meraviglia: questo scatena l’immaginazione. E l’immaginazione può portare a due strade: uno è mettersi in sicurezza da questo fenomeno, un altro è arrivare ad una forma di trascendenza che spiega cos’è la vita. Una trascendenza che ci porta ad apprezzare a fondo la meraviglia della vita. Questo ci succede con le arti effimere contemporanee e con il senso di appartenenza ad una specie in pericolo nelle nuove generazioni” Jeremy Rifkin
Tutto questo adesso rappresenta l’evoluzione della narrazione che stiamo vivendo. “Quindi ce la faremo in tempo a cambiare lo storytelling dell’umanità per salvarci? Non lo so. Ci sono dei movimenti verso una nuova narrazione? Sì, stanno emergendo”. La sfida è sulle piccole spalle dei giovani, secondo Rifkin: se riusciranno a muoversi oltre la protesta per cambiare l’accademia, il modo in cui concepiamo le scienze, la maniera in cui pensiamo. “La chiave sarà evolvere come umanità in senso adattivo per vedere la Natura come un processo e un modello, come un essere vivente: non più solo come un oggetto strumentale ai nostri fini”.